La
sociologia è scienza nata nell’800, ma già nel ‘700 c’era chi analizzava
i problemi sociali con metodo scientifico.
Di
recente è stato pubblicato il volume di Claudia Pingaro intitolato “Il
filosofo profondo. Cultura e dibattito riformatore nel regno di Napoli”
(Libellula Edizioni, 2010), che è incentrato sulla personalità di Giovan
Battista Scalfati, nobile di Nocera, vissuto dal 1712 al 1804, studioso
di problemi sociali ed economici ed autore, tra l’altro, di un “Piano di
economia riguardante la città di Nocera così in rapporto del suo terreno
che in riguardo del suo popolo”, nonché di “Ricerche sulla moneta di
rame nel Regno di Napoli” e “Ricerche intorno all'Economia politica
delle arti del Regno di Napoli”.
Claudia Pingaro, collaboratrice delle cattedre di Storia moderna e di
Storia delle città dell’Ateneo di Salerno, dottore di ricerca presso il
Dipartimento di Teoria e storia delle istituzioni, è autrice di numerosi
saggi sulla società meridionale.
Ma
perché il titolo “filosofo profondo”? Il termine “filosofo” nel suo
significato settecentesco e illuministico, ha ricordato Giuseppe Galasso,
indicava la figura dell’intellettuale che si muoveva sulla base di un
sistema generale di pensiero ed era, perciò, portatore di una visione
totale del mondo e della società.
Nel
‘700, nel regno di Napoli, il vivace dibattito sulla necessità di
riformare le istituzioni politiche e le strutture sociali ed economiche
si collocava nel solco del pensiero illuminista europeo. Giuseppe
Galasso (nel volume “La filosofia in soccorso de’ Governi”, Napoli,
1989) ha fornito una magistrale panoramica sul riformismo meridionale.
Si
trattava di una vera e propria “rivoluzione ideale”, benché affermata –
come ha osservato Franco Venturi (in “Illuministi italiani” – vol. V –
“Riformatori napoletani”) “con una moderazione ed un linguaggio paterno”
e, come nel caso di Giovan Battista Scalfati, proposta da un uomo che
apparteneva, comunque, ad un “milieu familiare tipico dell’ancien
régime”, come ha evidenziato Francesco Barra nell’introduzione al libro
della Pingaro.
Dal
canto suo, Ernst Cassirer (in Storia della filosofia moderna) ha parlato
di “processo universale del filosofare”. Sicché, anche quando pensatori
sociali, come Scalfati, si dedicavano allo studio di singole realtà
territoriali e sociali (es. il territorio nocerino) non veniva meno
quella “totalità sistematica perseguita dall’Illuminismo”, che assumeva
a fondamento l’universalità. Ma proprio in questa universalità risiedono
l’apriorismo e l’astrattezza dell’Illuminismo, che sono stati criticati
da Croce.
Però,
nel 1785, quando Scalfati redigeva il “Piano di economia riguardante la
città di Nocera”, non si era ancora spenta l’eco delle speranze
suscitate dal buon governo di Carlo di Borbone e di Bernardo Tanucci e
nulla lasciava presagire l’evoluzione dell’Illuminismo verso il
rivoluzionarismo, con le rotture avutesi, poi, con la parentesi
giacobina del 1799 e con il successivo irrigidimento borbonico.
Scalfati, sia pure da intellettuale di provincia, respirò il clima
illuministico italiano ed europeo e, come gli altri pensatori sociali,
ne trasse conseguenze sul piano politico, scorgendovi in esso lo
strumento per “una vigorosa reazione al disinteresse della cosa pubblica
e alla separazione della cultura dalla società”.
Perciò
l’Illuminismo, inteso come profondo cambiamento culturale, fu adoperato
nel segno del trasferimento delle idee dal piano teorico, a cui esse
appartenevano, al piano delle politiche di governo delle istituzioni e
del territorio. A Napoli, come in diversi Stati europei, i Sovrani
permisero che si esprimesse la progettualità illuministica. Un po’
dappertutto si era diffusa la consapevolezza che lo Stato non poteva
essere governato con metodi, procedure ed istituti, che erano un
retaggio della feudalità, sicché andavano applicati i criteri di
razionalità che permeavano la cultura del tempo e che la Pingaro indica
nell’equazione: ragione-utilità-pubblica felicità.
Il
volume, dopo aver preso in esame il clima riformista del Regno di Napoli
nel ‘700, traccia la biografia di Scalfati come un intellettuale
meridionale aperto al pensiero europeo ed italiano del tempo,
soffermandosi sulla famiglia e sul rapporto con il fratello Matteo,
generale di artiglieria e poi comandante della Nunziatella, autore di
saggi di tattica militare. Tra le fonti, a cui la Pingaro ha attinto, vi
sono l’ampio testamento del “filosofo”, custodito nell’Archivio di Stato
di Salerno, e la “Storia della famiglia”, scritta da Luigi Scalfati nel
1973.
Poi è
trattato il problema della riforma del Catasto che, nel pensiero di G.
B. Scalfati, assumeva un’importanza decisiva, in quanto egli vedeva nel
“sistema onciario” la causa principale del dissesto finanziario in cui
versavano le Università (oggi i Comuni) del mezzogiorno. Giustamente la
Pingaro afferma che “i catasti italiani settecenteschi assumono il
carattere di strumento anti-feudale, mediante il quale l’esigenza di
censire la proprietà è direttamente proporzionale al compito politico di
gestire il potere nelle città e di ridefinire in rapporti di dipendenza
nelle campagne”. Al riguardo Aurelio Musi ha scritto che la prassi
catastale si configurò come “il tentativo d’imporre, per via non
rivoluzionaria, l’illuministica ragione dello Stato sulle ragioni del
privilegio”. Di qui l’importanza della mappatura catastale e del
progetto riformatore di Scalfati che comprendeva anche aspetti di
innovazione della pratica agricola. Purtroppo, però, gli sforzi tesi ad
un nuovo Catasto, che superasse quello dell’epoca di Carlo III e
consentisse di realizzare un nuovo equilibrio tra i ceti sociali, non
ebbero successo per le resistenze baronali, a cui Scalfati stesso faceva
cenno nel suo progetto. Fu soltanto più tardi, col regno di Murat
(1808-1815) che, come ha evidenziato Renata De Lorenzo nella sua vasta
produzione scientifica sul tema (tra cui “I catasti napoleonici nel
Mezzogiorno d’Italia tra strumento fiscale e rappresentazione
cartografica” e da ultimo “Murat”, 2011), si potette finalmente
elaborare un Catasto, non geometrico ma a stima peritale, impostato in
un’ottica antifeudale e favorevole alla diffusione della proprietà
privata, tale da consentire certezza e regolarità nel prelievo,
perequazione fiscale, certificazione proprietaria. Esso rispondeva al
criterio di tassazione per categorie economiche e non per classi sociali
come nel sistema settecentesco.
Rispetto a tutto ciò il “Piano” di Scalfati si poneva come
prospettazione di esigenze di modernità e rappresentava un’acuta
anticipazione di nuovi scenari sociali. Ma, proprio le resistenze
feudali che incontrò questo Piano, come d’altronde tutti i conati
innovativi del ‘700, costituiscono una riprova dell’inefficacia del
riformismo settecentesco. Al riguardo sono evidenti le responsabilità
dei Borbone, che non se la sentirono di appoggiare fino in fondo quel
riformismo e di cambiare la base sociale su cui si reggeva la dinastia,
sicché fu inevitabile l’epilogo rivoluzionario. Lo stesso Scalfati,
deluso e benché ottuagenario, finì per aderire alla Repubblica
Napoletana del 1799 e gli altri suoi familiari (i discendenti del
fratello Matteo e Giovanni Marciano Simonetti), poi, si strinsero
intorno a Murat, assumendo anche cariche pubbliche nel buongoverno del
decennio francese.